CONFRATERNITE TRA ORDINE E SOVVERSIONE IN SICILIA E SULLE MADONIE (PETRALIA, GANGI, POLIZZI E DINTORNI): RIVOLTE POPOLARI DAL XVI AL XIX SECOLO



Di Mario Siragusa

Origini delle confraternite in Sicilia

Le confraternite laicali traevano le proprie origini fondamentalmente da due ordini mendicanti: quello francescano e quello domenicano. In età medievale nacquero le confraternite del SS.mo Rosario, del Sacramento, dei Flagellanti ecc. . La più antica confraternita siciliana è ritenuta quella dei Neupattitesi. In seguito all’importante Concilio Tridentino in Sicilia si svilupparono numerose confraternite laicali con scopi devozionali , pietistici ed assistenziali. Il fenomeno, divenuto importante e considerevole, fu sottoposto a regolamentazione puntuale da parte della Chiesa. Con la costituzione Quaecumque del 7 dicembre 1604 furono sancite le norme fondamentali per l’istituzione e l’organizzazione delle confraternite1. Tra gli scopi più comuni atti ad informarne l’attività furono il culto di uno specifico Santo o delle figure fondamentali per il. Cristianesimo: la Madonna nelle sue varie declinazioni ed espressioni (della Catena, delle Grazie, Immacolata ecc.), Gesù Cristo e sue rappresentazioni liturgiche chiave. Un rettore e le figure direttive di tali sodalizi (governatore, congiunti, adiutori ecc.) normalmente curavano una cappella, un oratorio o una chiesa.
A tali finalità spirituali se ne affiancavano altre, cioè quelle di natura temporale: assistenza dei confrati nelle loro principali esigenze quotidiane e vitali, come ad esempio in caso di indigenza (dovuta alla scomparsa di un capo famiglia affiliato a un siffatto sodalizio), assistenza dei carcerati, degli orfani, dei pellegrini, dei disoccupati (soci che perdevano il lavoro specie per malattia ), delle giovani in età da marito (dote) ecc. . Al loro interno vigeva il principio della mutua assistenza che in età contemporanea sarebbe stato recepito e fatto proprio dalle società di mutuo soccorso. Un tale tipo di assistenza poteva essere diretto anche verso i membri esterni, cioè non iscritti a tali sodalizi. Questi ultimi, di norma, avevano una sede (oratorio) all’interno o nei pressi della chiesa di riferimento. Esse dal punto di vista della composizione sociale potevano essere monogruppo o eterogruppo. Così a seconda se accoglievano rispettivamente membri di un solo ceto - ad es. quella degli orafi- o di più ceti e classi [C. Valenti]2. Alle confraternite monogruppo dei “mastri” (artigiani: muratori, falegnami, fabbri, conciatori ecc.) venivano di frequente affidate funzioni politico-militari e di polizia. Così a Palermo nel ‘600-‘700. Quelle sinora descritte erano le confraternite popolari o piccolo-borghesi. C’erano pure delle compagnie formate e fondate da gente altolocata di paesi e città. Tutte le confraternite avevano il diritto-dovere di partecipare ai riti e alle processioni della comunità. Venivano tradizionalmente fissati degli ordini di precedenza in base all’importanza sociale e ad altri criteri ( data di fondazione ecc.). A ciascuna derivavano dei privilegi concessi dalle autorità ecclesiali e dal Re ( vicerè in Sicilia). Ovviamente più privilegi si possedevano (concessioni limitate o esclusive di potestà di vario genere ed onoreficenze), maggiori erano ruolo ed importanza rivestiti da ciascuna rispetto alle altre. Esse si alimentavano e sostentavano grazie all’autofinanziamento. Ciascun confrate doveva versare periodicamente, di norma annualmente, una somma al proprio sodalizio. Ma anche il possesso sociale di animali (pecore, ad es.) era fonte di rendita. Questi venivano concessi in gabella (soccida) a confrati o a personaggi esterni al sodalizio. I lasciti testamentari erano un’altra fonte di ricchezza. Elemosine e somme erogate dalla liberalità altrui erano dirette alla recita di messe periodiche nella cappella o chiesa di riferimento. Anche delle terre, in questo quadro potevano essere donate alle confraternite. Il principio della segretezza su affari e componenti di tali sodalizi era d’obbligo, pena l’espulsione. Esse nelle società d’Ancièn Règime assunsero spesso un ruolo di stabilità e ordine . Ma in alcuni casi, furono fonte di contrasti e di disordine sociale e politico.

Il fenomeno delle confraternite sulle Madonie dal medioevo all’evo contemporaneo.

Sulle Madonie le confraternite ebbero come origine dei sodalizi che si richiamavano ai “flagellanti” e ai “disciplinati” o “disciplinanti”. A Polizzi, già in età medievale, è documentata la presenza di tali gruppi. I Disciplinati avevano la loro sede di elezione laddove abitualmente pregavano e seppellivano i loro morti. Nel caso dell’antico centro demaniale citato nella Chiesa di Santa Maria del Soccorso. E’ documentata la loro esistenza almeno a partire dal Trecento (C. Borgese- V. Abbate)3. Nel Quattrocento altre confraternite sono attestate presso la chiesa di Sant’Antonio, dove fra l’altro provvedevano ad adornarla con quadri artistici di San Giovanni, di Santa Maria del Parto, del Santissimo Salvatore. I Flagellanti sono attestati dai documenti presso la chiesa della Santissima Annunziata. La congregazione laicale e religiosa di San Gandolfo La Povera (fondata nel 1332) uniformandosi al modello di santità del citato francescano, era votata alla carità verso gli infermi e all’assistenza verso le pellegrine4 . Le confraternite medievali in quel centro e nel resto delle Madonie furono destinatarie di lasciti testamentari e donazioni private e pure contrassegnate dalla cura di seppellire nelle cripte i confrati, i poveri, dall’ assistenza agli indigenti, dall’ adornare artisticamente le proprie cappelle e chiese . Erano formate da popolani (villici in primis), da mastri e da nobili. Gli elementi socialmente più in vista formarono nella Polizzi quattrocentesca "la congregazione secreta di sacerdoti e cavalieri"[C. Borgese]. Compagnie similari si ebbero anche in età moderna su quei monti (come nel resto della Sicilia). La segretezza era un elemento caratterizzante per le confraternite ma in modo particolare per certe compagnie religiose di baroni e nobiles (nobiltà civica o degli uffici). A Gangi è documentata l’esistenza di una confraternita detta dei Trentatre. Ai primi del Settecento il nobile De Termine disponeva nel suo testamento un lascito in favore di quel sodalizio. Anche in carte dell’altra congrega nobiliare gangitana (inizialmente formata fondamentalmente da appartenenti alla nobiltà civica e al ceto dei magnifici) detta dei Bianchi viene menzionata tale misteriosa compagnia. Si sa che la confraternita dei Trentatré, tra Settecento e Ottocento, fosse ospitata nell’oratorio di altre confraternite dall’estrazione popolare o artigianale (SS.mo Rosario e Cappuccinelli) presso la Chiesa Madre di Gangi5. Fu attiva sino all’evo contemporaneo ed aveva cura di organizzare in particolare l’ importantissima processione del Venerdì Santo (Naselli). Aspirò ad avere una propria sede (navata a sinistra dell’altare maggiore della Chiesa di san Nicolò). Ma in via provvisoria fu ospitata nella sede di altre compagnie delIa Madrice San Nicolò. Un’altra nobile confraternita, quella dei già citati Bianchi ,a Gangi fu presente a partire dai primi anni Settanta del XVI secolo. La compagnia aveva un proprio ospedale, un monte di pietà ed operava varie questue in favore dei poveri (come i confratelli di Polizzi e di altri centri) . Uno dei suoi compiti fondanti era quello di assistere "a ben morire" i condannati a morte. Diversi confrati furono negli anni dello Zoppo di Gangi attivi nel far scarcerare diversi delinquenti , pagando la cosiddetta pleggeria (una sorta di cauzione giudiziaria) [M. Siragusa]6.La confraternita dei Bianchi funzionò in tale paese certamente fino alla seconda guerra mondiale.Tale compagnia fu presente in età moderna in altri Comuni. A Polizzi prendeva parte alle processioni religiose. I confrati, vestiti di bianco, portavano durante i cortei religiosi il loro stendardo rappresentato da un Crocifisso (così anche a Gangi, a Palermo ecc.). In quell’occasione le confraternite popolari e quelle nobiliari portavano le statue dei santi di riferimento oppure un crocifisso (con o senza asta a seconda dell’importanza della festività). Le congregazioni d’ispirazione francescana si contraddistinguevano per portare in processione una croce senza il simulacro di Cristo7. Pure a Petralia Sottana era attiva dal 1570 (anno della sua fondazione promossa dall’arciprete Gandolfo Mungiboi): "l’Arciconfraternita del Monte di Pietà sotto il titolo dei Bianchi eretta nell’omonima chiesa[…] con l’insegna del sacco bianco e manto di lana bianco"[Mascellino- Bongiorno]8. Aveva la finalità capitolare di garantire "la carità pubblica, a sovvenire i poveri indigenti, infermi e dare sepoltura a spese proprie"a coloro che non se lo potevano permettere. Per ordine vescovile del 1602 fu temporaneamente aggregata ad altre compagnie (in particolare al sodalizio della Misericordia) . Fu attiva fino al Novecento quando i suoi membri erano alcuni baroni e cavalieri (Figlia, Rampolla di Polizzello, Collisani ecc.). Composizione in parte analoga che si registrò anche a Gangi nell’omonimo sodalizio . Ivi fra gli affiliati c’erano esponenti dei gentiluomini (ex- esponenti della nobiltà civica ora borghesi - come i Vitale- e baroni -come i Li Destri). A Polizzi in età moderna una confraternita composta dalla classe e dai ceti dominanti locali aveva origini medievali (Quattrocento) e portava la denominazione di Compagnia del SS. Sacramento. Era costituita, come quella dei Bianchi, da soli nobili (anche Polizzi aveva un siffatto illustre sodalizio) . Fece costruire una chiesa ex-novo su particolare iniziativa e munificenza di don Giuseppe Caruso Barone di Xireni. Quest’ultimo la fece abbellire e decorare con stucchi ed opere artistiche. Così la chiesa assunse il nome di San Giuseppe. Tale compagnia fu aggregata nel ‘700 a quella del Monte di Pietà sorta nel ‘500 ed anch’essa connotata dall’ esclusivismo sociale dei suoi membri. Vi potevano far parte solo persone di alto lignaggio sociale. Tali compagnie si finanziavano more solito con elemosine e lasciti testamentari. Un facoltoso polizzano lasciò a una nobile confraternita una somma che doveva finanziare agli studi universitari 12 giovani suoi compaesani [C. Borgese]. Si trattava di una sorta di borse di studio accademiche private ante litteram gestite e promosse dai Bianchi. Siffatti sodalizi possedevano perciò diversi immobili urbani ed extraurbani. Sugli stessi percepivano rendite soggiogatorie e censi. Questi venivano infatti dati in affitto in cambio di un canone periodico (o in gabella) a diversi compaesani e a forestieri. Alle confraternite nobiliari facevano da pendant quelle popolari . Le loro finalità erano quelle note e consuete già descritte. Vi aderivano un ceto sociale specifico o più ceti. Non infrequentemente tali sodalizi, specie quelli socialmente intermedi, si dotarono di un ricco ed altolocato protettore come nel caso dei sodalizi dei mastri (SS.mo Rosario di Gangi, ad es.)9. Ciò per ovvie ragioni di difesa degli interessi sociali. Confraternite degli Agonizzanti si ebbero tra Cinquecento ed Ottocento a Gangi (chiesa di San Cataldo; dai capitoli del 1827 risultava composta in larga parte da villici e da qualche raro massaro e barbiere), Polizzi (fondata nel 1661 e con sede a Santa Maria di Gesù). Confraternite popolari (contadine e piccolo-borghesi dunque di artigiani e bottegai) erano quelle gangitane dell’ Annunziata ( 1680), di San Francesco, di Gesù e Maria e Giuseppe ecc. ). ,dei Cordieri di Polizzi (attiva fino al ‘700 e che sembra tradire le sue connotazioni sociali artigianali), probabilmente quella dalle origini cinquecentesca di San Giovanni Battista di Petralia Sottana (attiva nell’elargire elemosine ai poveri, somme dotali alle donzelle povere, nell’organizzare la Casazza e la Cattaba finalizzata alla raccolta di legna per la sua chiesa), quella di Santa Maria della Fontana (operante nella chiesa omonima) sempre di Petralia Sottana ecc. Quest’ultima, come qualche altra confraternita del tempo, si attivò e promosse opere non solo di abbellimento interno, decorativo, ma anche di tipo strutturale. Curò la costruzione di una guglia maiolicata sul campanile della chiesa citata. Cappelle e interventi strutturali ecclesiali erano curati da tali confraternite o da munifici personaggi afferenti a queste.

Rivolte sociali e politiche tra età moderna e contemporanea

L’aspetto che emerge con più evidenza da un relativamente ampio campione di dimostrazioni e sanguinose rivolte popolari avutesi nel XVII e nel XIX secolo nella Sicilia del latifondo, è rappresentato dal fatto che queste si inserissero nella lotta politica cittadina e rurale. La lotta fra fazioni paesane e cittadine era di frequente alla base di rivolte popolari dagli esiti non raramente sanguinosi. Si trattava più che di spontanee rivolte popolari, di cruente insurrezioni fazionali organizzate nell’ombra da un pugno di notabili abili nello strumentalizzare la rabbia dei ceti popolari, alimentata dalle ricorrenti crisi economiche ed alimentari e inasprita da tassazioni troppo elevate10. Inevitabilmente le tensioni locali si incrociavano con gli interessi del potere centrale o con vicende relative a scontri politici più vasti, cioè internazionali. Un frequente motivo che portava all’aperta rivolta del popolo contro i poteri costituiti era rappresentato in età moderna dalla questione fiscale. Del resto alcune importanti rivoluzioni internazionali non erano scoppiate proprio su questo tema? L’aumento sensibile ed improvviso di alcune gabelle (della farina, del salume, ecc) rischiava di innescare la rabbia popolare. E’pure risaputo come un’annata o più annate di carestia, il relativo e brusco aumento del prezzo del pane costituissero il brodo di coltura di numerose sommosse del popolino a tutte le latitudini. E’ dunque facile pensare – come ha sostenuto diversi anni fa su “Past & Present” Dale Edwards Williams- che alla base di una rivolta ci sarebbero stati rabbia e povertà11. Ma da soli questi elementi non potevano costituire un’automatica fonte di disordini e di violenze collettivi. Nella miscela fra l’ incremento improvviso delle gabelle e la fame generalizzata, per alcuni storici, sarebbero da individuare le cause di molte rivolte tra cui quella antigovernativa di Palermo del 1647 che, al grido di “fora gabelle e malo governo”, portò alla ribalta le masse, guidate da due artigiani, e mise in evidenza l’atteggiamento ambiguo delle élites sociali cittadine. Inoltre, altri, come Mousnier, hanno visto in numerose ribellioni popolari del XVII secolo avutesi in Francia, Russia e Cina, la reazione al processo di affermazione e centralizzazione statali12. Altri ancora hanno individuato le cause delle rivolte popolari in particolari condizioni demografiche oltre che economiche. Ma un’altra spiegazione è stata data circa una particolare tipologia di sommosse e ribellioni di massa. Questa è riconducibile alla lotte interne alle classi dirigenti paesane. In Sicilia la miscela tra grave disagio sociale ed economico degli strati medi, popolari e contadini è stato spesso oggetto di sapienti manipolazioni e strumentalizzazioni da parte di sezioni delle classi dirigenti. La rabbia popolare veniva indirizzata verso nemici di fazione o contro il Viceré ed i suoi rappresentanti. Ciò nonostante, in alcune fasi della rivolta contadina ed urbana, il bersaglio fu costituito da frange della nobiltà e dei gentiluomini (magari quelli invisi ad una fazione notabiliare che tendeva a guidare e a strumentalizzare la protesta).Il clero e le confraternite svolsero un ruolo in tali dinamiche. Un ruolo organizzativo importante in occasione di rivolte e tumulti sociali fu garantito consapevolmente o di fatto proprio da alcuni sodalizi laico-religiosi. Questi ultimi si muovevano in termini di contestazione dell’ordine politico e sociale vigente o di rafforzamento e preservazione dello stesso. Clero e confraternite ( o sezioni e rappresentanti di quei mondi) erano spesso legati da solidi legami alla classe aristocratica. Tale legame venne fuori con forza in diverse occasioni eclatanti e in quelle meno clamorose.In occasione della rivolta palermitana del 1773 un fronte costituito, secondo Saverio Francesco Romano, da ecclesiastici , frati e funzionari avrebbe costituito il nucleo ispiratore della stessa.. Un ruolo di collegamento tra base popolare in fermento e ispiratori “ideologici”, morali della stessa fu costituito dalle maestranze. Invece nei piccoli Comuni dell’interno ci si agitava (o si minacciava di farlo) contro i feudatari locali (spesso dei capifazione alimentavano gli odi popolari contro i propri avversari, tra i quali il signore del luogo). Era il caso di Gangi dove un fronte costituito da piccola nobiltà civica, esponenti del baronaggio di fresca data ( in particolare i Bongiorno che da poco avevano acquisito il rango aristocratico) e clero (tutti insieme appassionatamente in seno al mondo delle accademie culturali), coperti da un’egida massonica, costituirono un fronte contrario ai signori e principi del paese (Valguarnera). Il conflitto locale si ammantava di venature ideologiche e culturali (poetico-letterarie e storiografiche). Venature garantite dal ceto colto religioso e laico: giansenisti e massoni e governo borbonico contro il feudalesimo tradizionale e il gesuitismo. Più in generale l’aristocrazia feudale riuscì ad assumere il comando occulto di tali rivolte, specie nella seconda metà del ‘700 perché in crisi a causa dei propositi riformatori dei Borbone.Nei casi in cui questa fu bersaglio di odi e proteste popolari, riuscì comunque a riprendere le redini della situazione avvalendosi del proprio potere e della propria autorevolezza (rivolta per il pane di Palermo del 1647). Sullo sfondo di tali rivolte spesso emergeva l’apparato confraternitale ed il ruolo stabilizzatore o catalizzatore delle stesse fornito dal clero e dalle processioni religiose; in particolare, quello delle maestranze. Vediamo ora alcuni casi in proposito desunti dalla storia siciliana d’età moderna. .

Rivolte nella Sicilia spagnola tra confraternite ed èlites

Tra il 1516 ed il 1517 La Sicilia è in rivolta. Nel ’16 un blocco baronale, di cui facevano parte il marchese di Geraci Ventimiglia, un Cardona ed altri aristocratici, si schierò apertamente contro l’asse Viceré (Moncada)-Inquisizione. Era una questione di potere. Chi doveva comandare in Sicilia "li nobili" o il vicerè (rappresentante dello stato imperiale composito spagnolo) ? Questa era una questione fondamentale sempre viva in Sicilia e lo sarà ancora per i secoli avvenire. La nobiltà “autonomista” però tentò l’intesa con il nuovo Vicerè. Accelerò la ricomposizione del contrasto la congiura antinobiliare degli Squarcialupo, presto soffocata nel sangue, nel quadro di una Sicilia nuovamente in rivolta. Bersaglio della rabbia popolare erano stati il sistema socio-politico oppressivo fondato sul binomio amministratori cittadini - nobili. Vennero prese di mira le loro vite e le loro case. Nel settembre del ’17 i Ventimiglia uccisero gli Squarcialupo. L’ingresso nel Viceregno di forze militari spagnole mise la parola fine a quei torbidi avvenimenti. Secondo Castiglione una confraternita nobiliare palermitana detta dei Sette Angeli diede un ‘importante e segreta mano per una tale svolta13. Questa, costituita da personaggi ricchi ed autorevoli, muovendosi occultamente, riuscì nell’intento di realizzare il ripristino dello status quo politico. Essa viene vista dallo studioso come la reale e storica incarnazione del mito dei Beati Paoli. Un mito che poteva contenere elementi di verità storica, riassumendo fatti, personaggi, organizzazione e dinamiche del mondo delle confraternite siciliane. Un mito frutto di una rielaborazione popolare e colta di tali esperienze e realtà . Secondo Castiglione, la confraternita creata quasi per l’occasione venne sciolta ma i suoi personaggi principali li ritroviamo anni dopo al centro della vita politica palermitana e siciliana cinquecentesca. Qualcuno di questi ebbe un ruolo nella fondazione della Compagnia dei Bianchi nella capitale viceregia. E’ pur vero che nel Settecento il marchese di Villabianca ricorderà nelle sue memorie di aver conosciuto gli epigoni di tale setta, in qualche modo ancora viva ed operante ai suoi tempi. Dunque dovette esserci stata una forma di continuità nel tempo della tenebrosa associazione o una sua rifondazione.
Nel 1647 si registrò la rivolta di Palermo guidata da Cataldo Tarsino e da Giuseppe Alesi. A capo della protesta, dunque, due artigiani che potevano avvalersi dell’ausilio dell’apparato e dei canali organizzativi forniti dalle compagnie religiose delle maestranze.
Nella miscela fra l’incremento improvviso delle gabelle e la fame generalizzata sono da individuare le cause di molte rivolte scoppiate in Sicilia nel ‘600, tra cui quella antigovernativa di Palermo del 1647 che, al grido di “fora gabelle e malo governo”, portò alla ribalta le masse, guidate da due artigiani, e mise in evidenza l’atteggiamento ambiguo delle élites sociali e politiche cittadine. Il viceré ed altri rappresentanti della Corona furono costretti a fuggire. Vi furono alcune violenze e delitti. Sulle Madonie, in alcuni Comuni feudali (Università o Terre) contadini e popolani si ribellarono o comunque protestarono con forza. A capo delle proteste c’erano delle donne [F.Figlia]. I Senati e le corti giuratorie nelle città e nei borghi feudali furono oggetto della rabbia popolare. Erano quegli organi amministrativi periferici che imponevano le tasse. A Catania, al grido di "Al sangue ! Al sangue ! " popolani guidati dalle maestranze (artigiani ed operai) si dirigevano inferociti verso la Loggia senatoria. La chiesa intervenne per moderare gli animi. Al suo fianco scesero in processione molti cavalieri (oggetto in quel frangente dell’ira popolare) , gente comune e alcune confraternite come quella dei disciplinanti14. Daniele Rizzo ricostruisce le dinamiche ed i fatti della rivolta di quegli anni negli stati feudali degli aristocratici Moncada principi di Paternò. Vasto era il loro dominio feudale in quanto si estendeva dalla Sicilia orientale (Catanese) fino a parte delle Madonie. Quei territori, sparsasi la notizia delle sollevazioni delle principali città della Sicilia, si ribellarono o minacciarono di farlo. Così anche a Petralia Sottana e a Collesano. Il bersaglio ufficiale della protesta era principalmente costituito da coloro che istituzionalmente erano addetti a fissare le gabelle e le tasse: i membri della corte giuratoria, dell’annona ecc. . Anche in questo caso il clero e il mondo delle confraternite (specie quello direttamente generato dalle autorità e dall’élites locali) assunsero un ruolo in favore della moderazione e della difesa degli interessi egemoni. Comunque, alla fine di queste vicende turbolente che colpirono campagne e città della Sicilia, una cospirazione nobiliare liquidò i capi della rivolta. In ciò, quest’ultima, fu agevolata dalla attitudine al compromesso di alcuni capi corrotti della ribellione popolare.
Tra il 1672 (maggio) e il 1674 a Messina si verificarono altre memorabili sommosse popolari, riconducibili ad una sorta di guerra civile tra opposte fazioni ( Merri vs Malvizzi). Una "setta" occulta l’avrebbe organizzata. E questa si intrecciava con vicende di politica internazionale che videro assurgere a protagonista il confronto piuttosto aspro tra Francia e Spagna nel Mediterraneo. Quindi, abbiamo due piani che si incrociano, quello locale e quello di portata più generale, nazionale o internazionale. L’incontro di questi due piani contribuisce a spiegare i motivi, le cause di rivolte ed insurrezioni locali nella Sicilia dell’età moderna e di quella contemporanea.
Tornando alla rivolta messinese, ricordiamo che essa assunse dei connotati repubblicaneggianti (1672-73). Come spesso avveniva in questo tipo di rivolte, la folla che protestava assunse dei toni lealisti verso il Re. Ancora una processione religiosa, con fedeli , preti e confraternite appare in questa ennesima vicenda “rivoluzionaria”. Questa era stata guidata dai domenicani in onore del SS.mo Sacramento (e pensiamo col concorso della confraternita di riferimento: quella dei sacramentari, se non di altri sodalizi similari). Il ritratto del re Carlo II venne portato in corteo da incendiari e rivoltosi per le vie di Messina. I due cortei (quello religioso e quello dei ribelli) si incontrarono e fraternizzarono in chiave politica. Il fatto non apparve ai contemporanei figlio del caso. Per il viceré De Ligne , così spiegava il medesimo in una lettera inviata alla regina, ciò era frutto di un piano organizzato:"E’ certo che il popolo procedette ad un saccheggio generale già preparato"15. I contadini in quei torbidi distrussero alcune case nobiliari. I consoli delle arti e le maestranze avevano preso parte attiva e organizzativa in occasione di quella rivolta. Nel 1674 i Malvizzi , mobilitando parte del clero (teatini e cappuccini) organizzarono la reazione. Questa era un’altra tipica presa di posizione in favore della conservazione e dello status quo ante da parte del clero e di taluni sodalizi laico-religiosi. La rimozione del Viceré De Ligne sembrava essere il prodromo al ristabilimento dell’ordine. Ma la vicenda ebbe delle complicazioni internazionali, in quanto Messina guidata da capi radicali simpatizzò con i francesi.


Il tumulto antifiscale e religioso del maggio 1705 a Nicosia.

Nella primavera del 1705 si verificò nella città demaniale di Nicosia una rivolta popolare che sarebbe stata da ricondurre alla “penuria dei tempi”, cioè ad una carestia, e che per poco non culminò in una strage. Bersagli della violenta protesta popolare sono un commissario regio e i suoi agenti.
Un commissario viceregio agli inizi di maggio, aveva riscontrato numerose irregolarità nell’amministrazione dei conti civici. Inoltre, vari proprietari e gabelloti risultarono morosi nei confronti del fisco. Tra questi i baroni La Via e i baroni Salamone. Intorno al 12 maggio, proprio quando doveva terminare l’attività ispettiva del funzionario viceregio, scoppiò la rivolta. Gente armata di falci e asce assediò ed inseguì il commissario ed i suoi agenti per le strade di Nicosia. L’intento di quei "4000 facinorosi" era quello di compiere un’immane strage ai danni degli uomini del vicerè. Ci furono diversi ferimenti. Furono danneggiati anche i quadri sacri e le suppellettili della Chiesa di Santa Maria Maggiore, dove si era rifugiato il commissario insieme ai suoi fidi. Quei danneggiamenti sacrileghi sembrano spiegarsi sia con frizioni di natura religiosa e politica locale (vedi il caso della rivolta del 1743 a Nicosia) sia con le motivazioni antistatuali di quella rivolta. Sembrava esserci una fazione che, fedele alla Chiesa di Santa Maria Maggiore, aveva tentato inutilmente con i suoi capi di arginare la ribellione popolare. In quella Chiesa, va precisato, venivano custoditi, per speciale privilegio concesso anni prima dal Re, i simboli e i gonfaloni che rappresentavano la monarchia. Ecco perché il commissario si rifugiò proprio in quella Chiesa, e perché lo stesso edificio sacro fosse stato fatto oggetto di atti sacrileghi da parte dei rivoltosi. L’attacco appariva rivolto da quelle frange del clero e del connesso mondo delle confraternite legati alla chiesa di San Michele a fedeli e sacerdoti di Santa Maria Maggiore. Ecco perché vennero commessi degli atti vandalici e sacrileghi contro le immagini e i simboli sacri della Chiesa. Era risaputo che taluna delle chiese in conflitto per il matriciato (diritto o privilegio di una chiesa a rivestire il ruolo di Madrice) tradizionalmente mal sopportasse l’abbinamento tra potere politico, civile viceregio e la fazione dei mariani (Lo Gioco). Ma lo scontro proseguì nel tempo , nonostante i tentativi di risolvere il conflitto messi in atto in età moderna. Infatti. In quel ricco paese degli Erei, al confine con le Madonie orientali, era sorta in età moderna una nuova parrocchia che aspirava a diventare Madrice , oltre a quella ivi esistente da tempo immemorabile.
Così i fedeli della Chiesa di San Michele si trovarono in competizione con quelli di Santa Maria Maggiore (ciascuna rivendicava il diritto di primazia in quanto sosteneva di essere stata fondata per prima)16.

Dietro le pieghe del conflitto tra mariani e sanmicheloti: il quadro storico e suoi sviluppi

Ma il conflitto non era soltanto relativo a questioni di primazia religiosa. Divenne pure una questione politica. Vennero coinvolti nel dirimere la questione autorità e tribunali civili ed ecclesiali di Palermo e di Messina. Anche il viceré e, com’era più naturale , il papa furono richiesti di dare un chiaro e definitivo giudizio sulla vicenda. Facciamo il punto della situazione, riassumendone i contorni storici. Attorno alle due principali chiese nicosiane si erano formate, come sappiamo, due fazioni: sanmicheloti contro mariani . Ciascun quartiere facente capo alle due Chiese richiedeva il diritto di esprimere i componenti della Corte giuratoria. Parte dei giurati vennero designati dall’uno e parte dall’altro. Ma la controversia non si spense presto. I “mariani” e le confraternite di riferimento mal vedevano le pretese dei sanmicheloti. Intorno al 1743 gli arcipreti scrivevano ai propri correligionari ed alle autorità del tempo, sottolineando che paventassero lo scoppio di un "forte tumulto"17. Fu pure inviato un commissario dalle autorità del tempo: il prelato Bartoccelli da Petralia Sottana, pronto a fare ogni cosa per "evitare qualche violenza" popolare. Lo sforzo fu inutile.
La nuova rivolta è collocabile storicamente tra il 1743 ed il 1744. Allora lo scontro tra fazioni politico-religiose deflagrò nel corso di una solenne festa religiosa. Durante una processione, che si svolgeva con il concorso delle confraternite, alcuni notabili di una fazione istigarono la popolazione a tumultuare contro alcuni esponenti del clero locale. Così, guidati, pare, pure da un membro di una confraternita, alcuni seguaci di una fazione suscitarono delle violenze e dei danneggiamenti. Al termine delle medesime caddero colpiti mortalmente alcuni religiosi ed alcuni notabili. Tra questi un diacono appartenente al Casato dei baroni Nicosia. Una questione di primazia religiosa, al contempo fazionaria, e la questione dell’amministrazione dell’asse ereditario dei Termine furono al centro di quel triste epilogo18.


Tensioni religiose e politiche nel corso della ventata riformatrice dei Borbone (seconda metà ‘700)

La. ventata riformatrice antifeudale in Sicilia promossa dalla capitale del Regno borbonico Napoli produsse la confisca dei beni della Compagnia di Gesù, l’abolizione della Santa Inquisizione, iniziative legislative per la formazione della piccola proprietà contadina. Quest’ultimo punto ebbe degli effetti sulle lotte politiche locali. Forse per la prima volta la questione della terra (che esploderà in tutta la sua virulenza nel corso del XIX secolo e del XX secolo) cominciava ad assurgere a principio fondamentale della lotta politica, anche per i ceti subalterni. E soprattutto otteneva una sorta di legittimazione da parte di un sovranoe. Quest’ultimo intendeva contrappore un blocco di piccoli e medi possidenti all’egemonia plurisecolare dell’aristocrazia feudale.

Un motivo di scontro politico nelle Università (Comuni) in quegli anni era costituito dalle correnti riformistiche provenienti da Napoli e che godevano qualche limitato e condizionato consenso in Sicilia. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta alcune accademie si dissero favorevoli all’introduzione di nuove colture ed ad istanze di modernizzazione agricola. Il viceré Tanucci prima, e il vicerè Caramanico dopo furono promotori di iniziative legislative finalizzate non solo al rinnovamento di pratiche e di metodi agricoli ma anche alla formazione della piccola e media proprietà. Da quell’orecchio la nobiltà feudale non ci sentiva. La confisca dei beni gesuitici del 1768 fu sfruttata abilmente dall’aristocrazia per incrementare il proprio patrimonio fondiario e da qualche abile e spregiudicato gentiluomo 19. Il fine fondamentale perseguito dal governo borbonico non andò in porto: quello della formazione di una piccola proprietà contadina utile a fare da base sociale alla politica antifeudale degli ambienti illuministici napoletani. O comunque, non riuscì secondo i desiderata dei governanti riformatori.
Il poeta Meli e a Gangi la famiglia Vitale (e la loro fazione clericale e popolare) in questi anni si posero a capo delle istanze e delle proteste contadine e popolari vessate dai principi Valguarnera. Meli fu più che altro un teorico del problema. I Vitale di Gangi (la famiglia del poeta Giuseppe Fedele) ed altre famiglie borghesi o della piccola nobiltà civica ( legate al mondo ecclesiale e delle confraternite), la cui identità andava almeno in parte gradualmente stemperandosi nell’alveo borghese (fenomeno visibile con l’abolizione del feudalesimo), fu parte attiva e protagonista nello scontro col potere feudale dei principi Valguarnera. Alla base del dissidio motivi di egemonia politica e socio-economica. Una folta schiera di popolani pendeva ora dall’una ora dall’altra parte. Un tale scontro apparve intrecciarsi con quello tra due principali confraternite paesane: entrambe denominate SS.mo Rosario. In esse svolgeva un ruolo predominante il ceto dei “mastri”. Una classe sociale intermedia strategica per il controllo sociale e politico esercitato dai ceti dominanti[C. Valenti; Giarizzo, Cancila]. Alla base dunque c’era uno scontro interno ai poteri dominanti di Gangi. Fatto che aveva riscontro anche in altre Università siciliane20. Ad esempio, a Caltagirone.

Ribellismo e confraternite a Caltagirone

Siamo di fronte ad un conflitto locale che si ammanta e riveste degli scontri ideologici tipici di allora. In Europa, i fermenti radicali della rivoluzione francese ebbero delle ripercussioni anche in Sicilia. Nel 1799 si registrò nella cittadina siciliana per antonomasia della ceramica una strage “antigiacobina”. Il mondo delle confraternite, come fattore non solo di aggregazione religiosa e sociale ma anche politica, svolse un ruolo importante nella vicenda. Si registrò nell’anno citato una ribellione organizzata e certamente non episodica. Ecco lo svolgimento dei fatti. Vediamone le cause: 1)Odi e divisioni interne ai ceti dirigenti municipali. 2) Esclusione degli artigiani dal consiglio civico. 3) Aumento dei generi di prima necessità causato da speculazioni e dai cattivi raccolti di frumento degli anni precedenti.
. Tutti questi elementi di crisi furono abilmente manipolati da una fazione locale per sobillare i contadini a rivoltarsi contro i nobili e l’ amministrazione comunale “giacobineggiante”. Riassumiamo, dunque, l’andamento di quei drammatici fatti.
Si tratta dell’eccidio perpetrato ai danni di alcuni nobili strumentalmente accusati di essere filo-francesi. Alcuni “miliziotti” (sorta di polizia urbana o corpo militare), al centro di quegli eccidi, con la complicità di qualche proprietario escluso dalle leve del potere locale, si infiltrarono in una confraternita locale per fini di potere. Ecco la descrizione che di quella vicenda viene fatta da un cronista locale:"Numerosissima era in quel giorno la Congregazione di Gesù e Maria, perché si erano con la medesima incorporati tutti i Miliziotti. Incamminatasi la detta Congregazione […] scorse alcune delle principali strade, gridando ovunque, Viva la Santa Fede. [Era un] infausto presagio della imminente macchinata rivoluzione"21- commenterà dopo il medesimo cronista .
I contadini e diversi altri popolani vennero istigati a ribellarsi contro le gerarchie sociali e politiche cittadine. Fu fatto loro credere che si stesse tramando contro la città da parte di baroni giacobineggianti , alcuni dei quali vennero poi orrendamente massacrati dalla rabbia popolare opportunamente e abilmente suscitata e manipolata dai registi occulti del tumulto. I “milizziotti” potevano far parte di una corporazione o confraternita di “mastri”. Agli artigiani ed alle loro organizzazioni in età moderna venivano di sovente affidati compiti e funzioni di polizia locale. Quindi, il ceto artigianale escluso dal potere civico dovette allearsi con esponenti del ceto dirigente cittadino, magari sfruttando legami organizzativi propri del mondo delle confraternite, contro il baronaggio ( o parte di esso). L’accusa appariva strumentale e alquanto sospetta. Altrove i baroni erano stati proprio i bersagli privilegiati dei giacobini… Queste accuse strumentali e pretestuose caratterizzarono l’Ottocento borbonico di altri paesi o città demaniali come Polizzi Generosa.




Lotta politica madonita e suoi sviluppi risorgimentali

La società locale e le sue strutture di potere tradizionali (istituzionali e non) spesso tendono a seguire gli antichi costumi, adattandoli gradualmente al cambiamento imposto dall’esterno.Ciò era vero per l’Ottocento madonita. Quote del “nuovo” vennero ibridate, incapsulate nei vecchi assetti. Tutto questo appare particolarmente veritiero per alcuni contesti storici come quello madonita. In altri si è magari verificato che forti siano stati gli aspetti e le componenti innovatrici sotto la scorza del vecchio (come è accaduto in alcune zone della Sicilia Orientale). Ma ci stiamo occupando del primo ambito storico e territoriale, per il quale è soprattutto importante il peso e l’incidenza della continuità. Sulle Madonie la continuità di uomini e famiglie delle locali èlites gestì e connotò "la transizione “dolce” dai Borbone ai Savoia"22.
Le forme della lotta politica rimasero pressoché inalterate nei loro sostanziali contenuti autoctoni, al di là dei cambiamenti esteriori imposti dalla nuova legislazione sabauda. Vediamo come queste si fossero articolate in età borbonica e come le èlites avessero maturato il passaggio nelle file garibaldine e liberali. Per l’analisi di questo tipo occorre guardare non solo al conflitto “alto”, vagamente ideologico registrabile nelle fasi rivoluzionarie siciliane della prima parte dell’Ottocento. In quella fase si formavano le èlites che si richiameranno successivamente a turno al liberalismo, al clericalismo al socialismo.
Il conflitto politico che portò allo scontro tra gruppi e fazioni notabiliari si nutriva di motivazioni di prestigio, economiche, municipalistiche . In tale ambito si segnala la violenza organizzata collegata ai vertici della società paesana, il controllo della macchina comunale attraverso la corruzione e il peculato atto a favorire e sostenere l’ascesa dei ceti dirigenti e del loro seguito parentale e clientelare. La composizione delle classi dirigenti e la natura delle loro strategie e costumi pubblici in età borbonica avrebbero costituito successivamente la base della dialettica politica locale dell’età liberale sulle Madonie e nel resto della Sicilia. C’erano delle motivazioni prepolitiche del conflitto pubblico locale. Sarà adesso opportuno il richiamo della questione, mettendo in raffronto i motivi quotidiani del conflitto egemonico interno ai municipi madoniti con gli aspetti riconducibili, anche se in un contesto marginale, agli effetti locali degli eventi più rilevanti della storia isolana costituiti dalle vicende “rivoluzionarie” del 1821, 1838, 1848, 1860. Così si può comprendere meglio come le istanze localistiche avessero un’importanza assorbente nei confronti delle lotte di interesse “nazionale”. In un siffatto tracciato interpretativo si muovono gli apporti della più recente storiografia sul Risorgimento meridionale. Ha sostenuto Massafra la necessità metodologica di riscoprire la dimensione “normale”, quotidiana della lotta politica locale23.
Riguardo allo svolgimento delle forme di lotta politica comunale , nell’intrigo degli scontri quotidiani, basti ricordare alcuni casi. Agli inizi dell’Ottocento taluni esponenti della nuova aristocrazia madonita, formatasi nel corso del Settecento, entrarono in contrasto con il mondo clericale. Tali contrasti si fondavano spesso non proprio su un’ incipiente cultura laicizzante. Piuttosto, c’erano delle istanze più urgenti e pressanti da tutelare: la brama “affaristica” di voler mettere le mani su proprietà appartenenti alla Chiesa.
Lo spunto veniva non raramente offerto da questioni ereditarie legate a “lasciti”religiosi, perché famiglie ricche e titolate annoveravano tra le proprie fila uno o più sacerdoti, prelati. Così, agli inizi dell’Ottocento i baroni massoni Bongiorno (tra cui c’era un abate) chiesero l’intervento del giudice contro i benedettini accusati di brigare e corrompere per ostacolare le mire sull’antico monastero di Gangivecchio . Il problema era connesso a uno scontro interno a famiglie dell’èlites madonita, tanto che nella vicenda fu coinvolta la badessa Turrisi appartenente ad una influente famiglia nobiliare che poi, decenni dopo, da borbonica che era, avrebbe optato, mutati i tempi, per il liberalismo. Interessati ai lavori edilizi (bisognava realizzare imprecisate “opere” all’interno del monastero) erano alcuni “mastri” come tal Cataldo Randazzo. Quest’ultimo doveva appartenere ad una famiglia di gabelloti che prendevano in affitto interi feudi in società con dei “borgesi” e gabelloti (come tal Giuseppe Mocciaro la cui famiglia nel giro di mezzo secolo circa fu protagonista di una rapida scalata alle gerarchie sociali del borgo di Gangi; era l’alter ego di quel mastro Mursicato che fece altrettanto a Castelbuono e di cui parla Orazio Cancila in un suo studio). Alcuni influenti baroni come quello di Camissini furono chiamati in causa per risolvere la spinosa faccenda. I Camissini, più tardi, sarebbero stati coinvolti in quel di Polizzi nella lunga e penosa o faida con alcune ricche famiglie locali. Uno scontro, questo, che avrà delle tenui e strumentali colorazioni ideologiche (borbonici contro liberali)24.

Confraternite ottocentesche sulle Madonie: tra tensioni e liti religiose e forme organizzative protodemocratiche a Gangi

Un ambito associativo che spesso, come abbiamo visto in queste pagine, assumeva connotazioni politiche oltre che sociali era rappresentato dalle confraternite. Tali sodalizi, oltre a svolgere funzioni assistenziali per i ceti che vi aderivano, avevano anche un ruolo politico. Erano delle forme associative con le quali si assicurava un consenso popolare alle élites paesane che ne assumevano la protezione. Esponenti di famiglie della emergente borghesia delle professioni , delle gabelle e degli impieghi, che aspiravano a svolgere un ruolo nel governo municipale cercarono di aderirvi a vario titolo (come consulenti e sanitari). Si trattava di gruppi di pressione clientelari la cui voce era importante nelle dinamiche del potere locale. Talvolta i notabili scontenti di un certo andazzo politico potevano sobillarle inducendole a manifestare contro i propri avversari. Era funzionale alle strategie delle famiglie dei ceti medi in ascesa il fatto che queste annoverassero dei preti nel loro parentado. Ciò dava al capofazione nobiliare o borghese la possibilità di controllare, oltre che i cespiti municipali e il sistema della rendita fondiaria (tramite gli affitti fondiari) anche i proventi delle cappellanie e di alcune confraternite. Ad esempio, si può ricordare la disputa per una carica di cappellano della confraternita della SS.Annunziata di Gangi che vide lo scontro tra i borghesi Angilello (una famiglia di abili e spregiudicati gabelloti e trasformisti in politica dal prevalente ma non univoco orientamento filobaronale e liberale progressista, come dimostrerà la storia successiva della famiglia) ed i Ciappina. Le parti in gioco erano rispettivamente sostenuti da un proprio seguito di confratelli. Mediante il ricorso a vari abusi e violenze messi in atto da sicari prezzolati, si perseguì lo scopo di estromettere il prete Ciappina dalla cappellania25. Autorità civili e religiose intervennero sul caso.
Un altro aspro scontro negli anni Trenta dell’Ottocento coinvolse le Compagnie del “SS.Sacramento” e dei “Cappuccinelli” ,da un lato, e quella del SS.Salvatore, dall’altro.Le prime furono accusate da un confrate dell’altro sodalizio di contravvenire alle disposizioni di Pubblica Sicurezza che disciplinavano siffatte riunioni, con la complicità del locale giudice criminale. Il conflitto chiamò in causa le famiglie di gentiluomini che si erano più o meno faticosamente affermate socialmente tra Settecento ed Ottocento e che allora ricoprivano cariche di primo piano nel governo cittadino (ai seminobili Vitale si affiancavano i professionisti Ventimiglia , i Dongarrà). Si trattava di esponenti della borghesia emergente che pure nel resto della Sicilia sgomitava per guadagnarsi un “posto al sole” e di famiglie incluse fino ai primi dell’Ottocento nelle “mastre nobili” dell’Università . Negli anni Trenta molte confraternite madonite vennero soppresse o per “spirito di partito” (come nel caso Ciappina-Angilello) o perché sprovviste della regolare autorizzazione governativa26 . In genere erano guardate con sospetto dalle autorità borboniche perché temute come luogo d’incontro di forze antiborboniche. Non di rado con un pretesto regolamentare se ne ordinava la chiusura. In effetti, la loro organizzazione interna aveva degli aspetti incompatibili con la struttura autoritaria dello Stato borbonico. Al loro interno, infatti, vigevano delle forme di “democrazia politica”. I capitoli interni prevedevano dei criteri elettivi ugualitari, cioè tutti i confrati avevano diritto di voto in occasione della periodica scelta delle cariche interne del sodalizio. Il che dava luogo alla formazione di “partiti” interni o correnti favorevoli a questo o a quel candidato. Cordate interne corrispondenti, oltre che ad ambizioni personali, a particolari condizioni di ceto dei maggiorenti rivestiti delle carriere associative. Per esempio, il sacerdote Ciappina, apparteneva ad una famiglia che stava saltando il fosso passando dal mondo contadino agiato (burgisi) a quello piccolo e medio borghese: tra i Borbone e i Savoia avrebbe avuto il privilegio di dirigere la cosa pubblica locale entrando a far parte degli organi del governo comunale. Anche l’arciprete Cataldo Angilello era la mente direttiva di una famiglia in rapida ed inarrestabile ascesa, pur provenendo dal ceto dei “burgisi”. Un influente seguito di confrati ne sostenne la candidatura a cappellano. Tra questi, un Cataldo Paradiso, un tal A. Naselli, un Calcedonio, e il pregiudicato Gaetano Alaimo, alias “malacarne”, un nomignolo che era tutto un programma e che la diceva lunga sulla pericolosità del soggetto.
Inoltre, va detto che l’Angilello era probabilmente imparentato col sindaco ed era capace di intrattenere relazioni in alto loco, essendo inserito nella rete clientelare, in quanto gabelloto del baronaggio. Lo scontro da religioso divenne politico. Questo perché coinvolse autorità comunali esterne alla Chiesa e perché rifletteva degli umori tesi all’interno del gruppo dirigente locale. Così avvenne anche a Polizzi negli anni “gloriosi” del Risorgimento, quando sacerdoti imparentati con le autorità politiche “rivoluzionarie” (guidate dai baroni), sobillarono autorevoli parenti ed amici contro i preti di famiglie borghesi che ostacolavano le loro mire . Un po’ questo era un modello di lotta politica che riscontriamo anche a Petralia Sottana. In quel centro i Rossi, borbonici di quattro cotte e poi , in età unitaria, sarebbero divenuti leaders indiscussi del “liberalismo progressivo27” contendendo la leadership comunale a potenti famiglie locali, in alleanza con altre parimenti influenti.. Ma il conflitto interno alle confraternite (come quella dell’Addolorata) era latamente politico riguardo anche alla vita interna del sodalizio. Da lì passavano delle possibilità di arricchimento e di formazione di clientele interne. La gestione dei censi , ad esempio, era un canale che suscitava diversi appetiti. Di frequente venivano denunciate alle autorità competenti le divisioni e i “partiti” (gruppi d’interesse) che agitavano la vita delle confraternite. Nelle denunce ricorrevano le lamentele per "le scissure insorte tra le confraternite […]"28. Come si è già rilevato, nelle confraternite madonite le supreme cariche sociali erano elettive. Diverse norme interne disciplinavano l’elezione alla carica di Governatore e dei suoi coadiutori (“assistenti”). Si trattava di norme variabili. Ad esempio, la confraternita degli Agonizzanti (nell’Ottocento formata da numerosi "villici") e la compagnia del SS. Rosario di Gangi costituita da piccoli borghesi (in genere artigiani) poteva eleggere i propri “quadri dirigenziali” tramite voto individuale. I candidati "prenderanno i voti, che ciascun fratello ossia congregato darà".29
Ma come si votava e come venivano designati i candidati?
In genere l’arciprete e il governatore della confraternita, in "in carta per ognuno separata (debbano) scrivere il nome, e cognome dei fratelli" da eleggere. E venivano resi noti ai confrati i nomi di coloro che "godono della voce tanto attiva, quanto passiva". Il termine “voce” stava per voto. I candidati erano 6 ed erano designati dai vertici della confraternita. Poi ciascun confratello su un’apposita scheda poteva dare uno o più voti . Era eletto "quel che più [si] ritrova ad havere più voti"30. Sono evidenti le differenze tra i criteri di scelta delle cariche comunali, da un lato, e quelle delle confraternite in età borbonica e in età liberale . A volte venivano introdotte delle restrizioni all’elettorato passivo. Per essere eletti occorreva avere fama di persona dignitosa ed affidabile sotto il profilo morale (ad esempio erano esclusi i debitori ), era richiesta una certa soglia anagrafica (almeno 30 anni per la compagnia del S. Rosario di Gangi), insieme ad un minimo di alfabetizzazione (saper leggere e scrivere).
Spesso la vita sociale di tali confraternite popolari si incrociava con quella delle confraternite altolocate come quella dei Bianchi o dei Trentatré. L’esperienza delle confraternita popolari era condizionata dalle scelte dei loro protettori normalmente appartenenti al ceto nobiliare. In alcuni paesi madoniti si ebbero persino due o più confraternite di “mastri” perché sottomesse a patronage diversi. A Gangi la scissione dell’élites locale produsse due confraternite di artigiani, in aspra lotta fra loro. Una di queste la confraternita del Rosario della Chiesa della Catena contrapposta all’omonima confraternita della Chiesa Madre (dove c’erano dei rituali iniziatici che sembravano riecheggiare quelli massonici) era protetta da alcuni preti e nobili della Accademia massonica degli industriosi (fino al 1780, quando quest’ultima fu soppressa)31. Così le lotte per la leadership sul mondo delle confraternite diveniva un affare politico locale, nel senso che si inseriva all’interno della lotta municipale. Almeno questo fu il sospetto avuto da governo borbonico dietro le delazioni e le denunce del fronte locale avverso. La confraternita dei mastri della Madrice di Gangi era protetta dai baroni Bongiorno. Così come risulta da nuove scoperte, stavolta di natura iconografica, siffatta famiglia appariva intimamente e strettamente legata alla massoneria. Al di là di quanto da noi scritto in altra sede, anzi in connessione con quanto già riferito, lo stemma che appare senz’altro riconducibile a questa famiglia ha un chiaro simbolismo massonico. Infatti nel quadro della natività oggi conservato presso la Badia e in quello della Addolorata custodito nei locali della Chiesa madre di Gangi si vedono degli stemmi araldici riconducibili ad essa (sole, stelle allineate). Tra gli altri elementi si nota un cielo stellato e un compasso aperto verso il basso.Il relativo inquartato simboleggia il massonico rapporto tra spirito e materia. Le stelle sono disposte a forma di squadra. Una squadra geometrica sovrapposta al compasso o intersecatesi con esso.. I Bongiorno avevano in altre occasioni espresso iconograficamente la loro adesione alla massoneria. Così nella loro dimora principale di Gangi (oggi palazzo comunale)32. Così in una sala di palazzo Bongiorno dove oggi si svolgono le adunanze consiliari, si nota una figura femminile reggere verso un compasso tra le figure dell’affresco del soffitto. Anche sul muro dell’edificio si nota un’incisione in un blocco di pietra di un compasso. I Bongiorno protettori dell’accademia e la confraternita del SS.mo Rosario della Madrice erano anche legati dal culto e dalla devozione speciale espresso dal quadro dell’Addolorata citato.I nobili gangitani furono al centro di rapporti di protezione verso un particolare e pericoloso bandito chiamato Testalonga. Un’inchiesta di polizia ne mise in evidenza le responsabilità.
Per chiusere va detto che le confraternite come nucleo organizzativo popolare e dei ceti medi avrebbero continuato a svolgere un ruolo nel corso della rimanente parte del XIX secolo.

Il caso di Polizzi: quei decenni turbolenti e cruenti33

Polizzi, un centro agricolo storicamente tra i più prosperi delle Madonie, vide uno scontro articolarsi per diversi decenni seguendo le principali scansioni risorgimentali. Si registrarono conflitti e tensioni all’interno del ceto dirigente locale. In particolare,. la famiglia dei baroni Di Carpinello intese colpire i propri nemici ed avversari, sobillando e scatenando loro contro la folla . Al suo interno si distinsero degli artigiani e uomini di spicco di alcune confraternite. I capi di alcuni sodalizi laico-religiosi siffatti fecero da tramite e da anello organizzativo di raccordo tra i mandanti delle ribellioni stragiste e il popolo inferocito. Tra gli anni Venti e i Sessanta del XIX secolo furono compiute autentiche stragi di notabili e baroni invisi alla fazione Carpinello. In alcune occasioni si sfruttarono abilmente e scaltramente le tensioni ribellistiche antiborboniche strumentalizzate a favore dei disegni strategici dello scaltro ed efferato Giorlando di Carpinello. In quella fase storica anche a Gangi le confraternite del SS.mo Sacramento e dei Cappuccinelli si scontrarono con altri sodalizi del luogo. Dalla documentazione del tempo risulta un clima di tensione e di sospetti, di connivenze politiche, giudiziarie che coprivano attività sospette di quei due sodalizi. Al loro interno, si agitavano dei “tristi” e dei malintenzionati. Non mancavano in questo clima preti coadiuvati ed assistiti da soggetti facinorosi del mondo delle confraternite. Il Vescovo su richiesta delle autorità di polizia, per evitare degenerazioni e tumulti decisero di chiuderle o sospenderne l’attività per qualche tempo (intorno agli anni Trenta dell’Ottocento). Intorno al 1820 si registrò una rivolta popolare che fu diretta (o meglio eterodiretta) contro giurati ed esattori daziari. E ci scappò pure il morto. .La vicenda è accennata dall’Abate Scinà in sue carte private su quegli anni ( della stessa parleremo più diffusamente in altra sede grazie a una nuova scoperta d’archivio). La vicenda presentava un quadro tipico e rientrante nel solco degli atti di ribellione sociale tipici della Sicilia d’età moderna. Si aveva una folla di popolani inferociti contro l’amministrazione locale e gli agenti daziari. Disturbava l’innalzamento di alcuni dazi locali (quantomeno paventato, se non attuato). Per cui si mirava alla distruzione delle carte esattoriali e comunali. C’era a ciò l’interesse di alcuni grandi gabelloti di beni e servizi comunali, guarda caso morosi. Inoltre, ci fu pure l’intenzione del clero e di altri notabili preoccupati dall’evolversi degli eventi con intenti pacificatori. A questa dovevano presumibilmente partecipare le locali confraternite . L’archivio comunale minacciato dai rivoltosi fu messo in sicurezza presso la sagrestia della Chiesa Madre. Emerge pure il ruolo ambiguo del baronaggio locale (Li Destri).

La Sicilia nel 1893-94 tra stato d’assedio e nuove stragi: il caso Marineo

Siamo negli anni dei Fasci siciliani. La Sicilia è passata da circa un trentennio nelle mani dei Savoia (Regno d’Italia). Nuovi modelli di organizzazione dell’amministrazione statale e periferica si affacciavano alla ribalta della storia italiana e siciliana. Emergenti ideologie permeavano di sé la vita politica: liberalismo, socialismo, anarchismo. Il nuovo Stato viveva una sorta di rottura con alcune di queste correnti politiche nuove e con la Chiesa specie dopo la legge Corleo del 1866 (confisca dei beni ecclesiali, delle corporazioni religiose) e la “breccia di Porta Pia”: classe dirigente liberale vs socialisti, mazziniani, clericali. La Sicilia feudale abolita formalmente dai Borboni nel 1812 continuava a sopravvivere in un quadro gattopardesco più tardi ben delineato da scrittori come Tomasi di Lampedusa. Sul finire dell’Ottocento , le masse contadine e artigiane (in primis) danno vita ad un vasto movimento organizzato su scala regionale per la rivendicazione di alcuni nuovi diritti sulla terra e categoriali . Da Palermo a Catania il movimento prende piede. Si tratta dei Fasci Siciliani. La vicenda che ora narreremo, inquadrandosi in quest’ottica storica, è interessante perché segna un punto di confluenza di modalità di organizzazione sociale tradizionale con modalità organizzative popolari più moderne. Un punto d’arrivo e un punto di partenza. A Marineo, su un colle a poca distanza da Palermo, da decenni imperversava la questione agraria in un quadro di grande miseria e di arretratezza sociale. Si consideri Gli eventi culminati nella strage del gennaio 1894 sono di particolare rilievo per entrare nel vivo di una dinamica nel quale le rivendicazioni popolari erano strumentalizzate dai notabili e dalla mafia. Un ruolo e fattore importante in tali torbidi fu rivestito da una confraternita. Il capo indiscusso del paese era stato negli anni Ottanta dell’Ottocento il notaio Filippo Calderone, alla testa di una specie di “partito-cosca”.
Alla morte di questi, tale singolare “partito” si indebolì, subendo alcune defezioni interne e perdendo le elezioni (1892). Nel corso del 1893, a fini elettorali, il suo nuovo capo, il sacerdote Ciro Romeo (alla guida di una confraternita composta in gran parte da pregiudicati), insieme ad alcuni notabili, era riuscito ad avviare una fruttuosa collaborazione con il Fascio costituitosi nel paese con un personale di contadini. Addirittura era riuscito a diventarne il vero Deus ex machina34. Così, gli era stato possibile indirizzarne le istanze in una direzione moderata sulla questione della terra: Il reverendo Don Ciro, verosimilmente rettore o governatore della citata confraternita: "di già persuaso che il fascio composto quasi tutto d’ignoranti contadini e senza una persona la quale avesse potuto guidarli e frenarli era un serio e continuo pericolo di disordini, ha voluto temperarlo, facendovi intromettere persone d’ordine e che hanno qualche influenza".35 Si trattava, naturalmente, di mafiosi e notabili. In questo modo si era realizzato l’incontro tra le vaghe idee socialiste propugnate dai contadini con le istanze notabiliari delle fazioni delle èlites : <>36. Così riferivano ai propri superiori i carabinieri di Marineo , i quali da mesi paventavano lo scoppio di disordini locali. Ovviamente, le forze dell’ordine mostravano una decisa preferenza per il “partito dominante” in consiglio comunale: un “partito”di mafia vicino a Crispi e sostenuto elettoralmente da una Società di Mutuo Soccorso. Oltre tutto, la fazione che continuava a fare capo agli eredi del notaio Calderone e si identificava nella confraternita necessitava di ulteriori appoggi, in vista delle prossime elezioni. In tale prospettiva è evidente che il sodalizio del SS.mo Crocifisso si prestasse come macchina di raccolta dei consensi fondamentalmente notabiliari.
In tale quadro il locale Fascio – composto, come si è detto, essenzialmente da braccianti e contadini senza terra e controllato da don Ciro Romeo e dai fratelli Calderone – si alleò con un altro sodalizio locale, denominato “La Vigilante”. Quest’ultimo era formato da contadini relativamente benestanti (detti, in siciliano, borgesi). I suoi soci "sia perché sostenitori dell’attuale amministrazione comunale, sia perché essendo piccoli possidenti non vogliono accomunarsi con quelli che aspirano alla divisione dei loro averi, si sono mostrati avversi a tale unione. Da ciò è derivato un non so che di rancore fra la stessa classe di contadini, rancore che potrebbe degenerare in odio".
Il questore sembrava far propri i timori della classe dei proprietari al potere a Marineo. Timori fondati sull’eventualità che i cosiddetti calderoniani , nonostante la loro capacità di controllare il Fascio e addirittura proprio per questo, si decidessero a soffiare sul fuoco delle istanze dei contadini poveri per acquisirne e pilotarne il consenso a fini elettoralistici. I legami organizzativi offerti ed insiti al sodalizio laico-religioso in esame conferivano maggiore forza ad una fazione locale già forte per la sua capacità intimidatrice. Gli ambienti di PS nel mese di settembre avanzarono il sospetto di una cospirazione rivoluzionaria promossa dai fascianti locali e, dunque,dai confrati loro alleati37. Questo documento la dice lunga circa gli allarmi della Questura nella prospettiva di una ravvicinata e temuta protesta contadina. E’ scontato che gli organi di polizia stessero vivendo il clima delle preoccupazioni che, in alto, nella sede del governo nazionale, erano coltivate dal presidente Crispi.
La competizione tra le fazioni paesane si svolgeva tra un fronte di ex-democratici (diventati adesso “socialisti”e guidati dal noto religioso Romeo) e un altro fronte che si riconosceva nella guida “liberalmoderata” di un certo cavaliere Patti e del sindaco Triolo .
I contatti tra i socialisti di Marineo e il leader regionale dei fasci, Nicola Barbato, diedero motivo ai proprietari legati al cosiddetto fronte “liberalmoderato”di temere il peggio per la sorte dei loro interessi. La base del movimento, da tempo, avanzava la richiesta di un sistema equo di tassazione e chiedeva la revisione dei patti agrari in senso più favorevole ai contadini. Non mancarono anche proposte per la quotizzazione dei latifondi del demanio da assegnare ai contadini.
Il clima sociale locale divenne incandescente. Questi, in breve, i precedenti del tragico evento del 3 gennaio. Ed ecco, qui di seguito, la cronaca dei fatti.
Una folla di manifestanti provenienti da Belmonte Mezzagno entrò a Marineo. Si trattava di una dimostrazione, ufficialmente dai caratteri sindacali, organizzata dal Fascio locale, nella quale però gli infiltrati mafiosi del “partito calderoniano” in cui c’erano diversi confratelli già stavano accendendo le micce di una protesta energica e devastante. I manifestanti, sollecitati dai provocatori, si precipitarono negli uffici daziari e li devastarono dandoli alle fiamme. Anche in questo caso gli istigatori erano ben individuabili in alcune guardie campestri in forte odore di mafia già assunte in servizio dalla precedente giunta comunale dei calderoniani e licenziate dal nuovo sindaco. Tuttavia, la principale richiesta della folla era l’immediata abolizione del dazio sulla farina. Il Consiglio comunale, riunitosi d’urgenza cedette sulla questione: abolì il dazio. Ma "l’elemento torbido aveva purtroppo il partito preso di continuare i disordini". Secondo le relazioni di polizia la maggioranza della folla tumultuante era del tutto disarmata, ma in essa erano presenti alcuni elementi dotati di fucili e pistole. Si trattava certamente di campieri e di uomini di fiducia dei Calderone. Furono loro a far partire la prima scarica di proiettili. Scrissero in proposito i carabinieri nella loro relazione: “Dall’altro lato della piazza si presentava altra folla minacciosa esplodendo dalla cantonata colpi d’arma da fuoco contro la truppa […]”.
Alla fine degli inevitabili, successi scontri tra i militari e i manifestanti la truppa non subì perdite. Ma non la stessa cosa accade ai “fascianti”. Ne morirono 18, tra i quali c’erano delle donne, spesso protagoniste in Sicilia di molte proteste popolari38.

NOTE

1 Questo contributo è pubblicato in www.archeoclubitalia.org (vedi sede di Gangi o Bollettino associativo), sito nazionale archeoclub; ed anche in www.academia.edu.indipendent.mariosiragusa ; sezione personale del sito internazionale di studiosi, ricercatori, docenti universitari Accademia.edu. Sul tema vedi: C.Valenti, Ricchezza e povertà in Sicilia nel secondo settecento, Palermo, Epos, 1982, pp. 197. Sulla situazione storica della Sicilia d’età moderna si veda:V. D’Alessandro-G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, Torino, UTET, 1992. A cura dell’ Archeoclub d’Italia sede di Gangi
2 C. Valenti, Ricchezza e povertà, cit., p. 203 e ss.
3 Nella descrizione delle attività ed organizzazione delle confraternite di Polizzi si vedano un volume pubblicato da Carlo Borgese contenente trascrizioni di diversi documenti medievali e moderni, e il volume di V. Abbate, Inventario Polizzano. Arte e società in un centro demaniale del Cinquecento, Palermo, Ed. Grifo, 1995.
4 Sull’anno di fondazione su citato e sulle altre confraternite polizzane vedi : V. Abbate, Inventario Polizzano, cit., pp. 47-50
5 Chiesa Madre di Gangi, Archivio della confraternita della Madonna del SS.mo Rosario,Carte sciolte del sodalizio
6 Su tali pratiche sulla sua influenza socio-politica e su deviazioni dalla legalità della locale compagnia vedi: M.Siragusa, Gli Inquietanti legami dello Zoppo di Gangi, Leonforte, Lancillotto, 1997.
7 Ciò emerge dalle carte della confraternita del Rosario della Chiesa della Catena di Gangi
8 P. Bongiorno-L. Mascellino, Chiese e conventi di Petralia Sottana, Petralia Sottana, Il Petrino, p.157
9 Sui mastri, i nobiles, i magnifici e su altri ceti sociali d’età medievale e moderna si veda: M. Siragusa- M. Giacomarra-F.P. Pinello, Storia della società madonita: dai baroni ai borghesi , Archivio di Stato di Enna- Cgil Alte Madonie-Centro Studi E. Li Puma, Bompietro-Locati (Pa), 2018.
10 Tale tematica l’ho affrontatato in una ricerca pubblicata in G. C. Marino, La Sicilia delle stragi, Roma, Newton Compton ed., 2008, dal titolo: Cronologia di lungo periodo (secc. XVII-XX)dei fattori stragisti e delle stragi in Sicilia.
11 R. Mousnier, Furori contadini. I contadini nelle rivolte del XVII secolo (Francia, Russia e Cina), Soveria Mannelli (CZ), Rubettino, 1983. Vedi pure: R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Roma-Bari, Laterza, 1987; F.Benigno- G. Giarrizzo, Storia della Sicilia, Roma-Bari, Laterza,1999, vol 3.
12 R. Mousnier, Furori contadini. I contadini nelle rivolte del XVII secolo (Francia, Russia e Cina), Soveria Mannelli (CZ), Rubettino, 1983. Vedi pure: R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Roma-Bari, Laterza, 1987.; F.Benigno- G. Giarrizzo, Storia della Sicilia, Roma-Bari, Laterza,1999, vol 3, pp.91-103.
13 In un agile libricino edito dalla Sellerio Castiglione avanza una tale ipotesi: Il segreto cinquecentesco dei Beati Paoli. Su rivolte e stragi in Sicilia si veda la mia cronologia dei fattori stragisti e delle stragi pubblicata in G.C. Marino (a cura di), La Sicilia delle stragi, Roma, Newton Compton, 2007, pp.443-472. Sulle rivolte in Sicilia si veda:G.Giarrizzo, La Sicilia moderna dal Vespro al nostro tempo, Firenze, Le Monnier,2004; Sulle rivolte settecentesche siciliane vedi: C. Valenti, Ricchezza e povertà…, cit., pp.222 e ss.; Interessanti contributi in merito anche nella rivista Mediterranea e Ricerche Storiche.
14 G. Giarrizzo, La Sicilia moderna…, cit. pp. 57-59
15 Ibidem
16 Vedi: M.Siragusa, Cronologia dei fattori stragistici in Sicilia in G.C. Marino, La Sicilia delle stragi, Roma, newron Compton, 2007,. pp. 444-445. Le altre vicende qui narrate (Gangi, Cefalù, Nicosia Marineo) sono ricostruite da me nel libro appena citato.
17 M. Siragusa, Cronologia … cit.,p.448-449.
18 Ibidem
19 M. Verga, Il Settecento del baronaggio. L’aristocrazia siciliana tra politica e cultura,in F. Benigno e C. Torrisi., Elites e potere in Sicilia, cit., pp.87-102
20 Sullo scontro dei principi Valguarnera con le élites laico-religiose di Gangi vedi: M. Siragusa, Principi contro preti, in Espero, 2009; M. Siragusa, La massoneria a Gangi, in L’Obiettivo del 31 dicembre, 1997; F. P. Pinello, La beneficenza e l’educazione-istruzione del popolo in M. Siragusa (A cura di), Storia della società madonita: dai baroni ai borghesi, Locati-Bompietro (Pa), Archivio Stato di Enna, CGIL Madonie, Centro Studi Li Puma, 2018: M. Siragusa, Cronologia…, cit.; M. Siragusa, Un sodalizio massonico tra i monti della Sicilia interna: l’accademia degli Industriosi di Gangi , in Studi Storici Siciliani n.4
21 S. Randazzini, La tumultuazione popolare contro i creduti giacobini in Caltagirone, Palermo, Sellerio, 1981, p.68
22 C. Torrisi, Città capovalli.., cit., p.479 M. Verga, Il Settecento del baronaggio. L’aristocrazia siciliana tra politica e cultura,in F. Benigno e C. Torrisi., Elites e potere in Sicilia,Roma-Bari. Donzelli, pp.87-102
23 C. Torrisi, Città capovalli..., cit, 247. Pinella Di Gregorio, nel caso della borbonica Caltanissetta ha individuato dimensioni politiche locali e extralocali, economiche nel conflitto politico cittadino. Vedi:P. Di Gregorio, I Leoni e le iene, cit
24 S. Mazzarella, Polizzi o della rivoluzione, Palermo, Sellerio
25 Archivio di Stato di Palermo (Asp), Direzione di Polizia (1800-1859), b. 234, fasc. 99. Diverse notizie in merito alla Gangi borbonica ed ai suoi fermenti interni alle confraternite le abbiamo attinte dalla fonte appena citata. Anche la vicenda dello scontro che vide come vittima il sac. Ciappina.
26 Ibidem. Si veda pure il mio contributo sulla borghesia 800esca madonita nel n.3/ marzo 2016 di Studi Storici Siciliani dal titolo: La borghesia nel cuore del latifondo siciliano, p. 70 e ss..
27 F. Figlia, Dall’Antico Regime all’età contemporanea in un Comune rurale, Palermo, Ed. grifo, 1994.
28 Asp, Direzione di Polizia, b. 234, vedi fascicolo sulle confraternite gangitane e sulle loro liti (prima metà XIX secolo).
29 Ivi, vedi I Capitoli o Statuti delle due compagnie citate.
30 Ivi.
31 S. Naselli riporta la notizia della chiusura del sodalizio degli Industriosi, pare a causa del sospetto che in essa si svolgessero attività sovversive. In verità ai favori iniziali verso siffatti sodalizi goduti presso la Corte di Napoli seguì un clima politico ostile o sospettoso. Massoneria e giansenismo che animarono l’attività dell’Accademia gangitana non erano più ben visti come un tempo presso la Corte borbonica. Si veda in proposito: S. Naselli, Gangi, Ed.Ibis, 1963. G. Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo nell’Europa , Padova, Marsilio, 1994. V. D’Alessandro-G. Giarrizzo, La Sicilia dalVespro all’Unità d’Italia, Torino, UTET, p.542 2 ss.. G. Castiglione, La massoneria nelle Due Sicilie e i fratelli meridionali: La Sicilia, Roma, Gangemi , 2011, vol. IV
32 Sull’argomento vedi; M. Siragusa, La massoneria a Gangi, in L’Obiettivo, 1997-98, oggi in www.comitatoenginomadonita.altervista.org/CREM/ . Inoltre si veda: M. Siragusa, Un sodalizio massonico tra i monti della Sicilia interna: l’accademia degli Industriosi di Gangi in Studi Storici Siciliani, n.4 /dicembre 2016, pp. 94-99. Vedi anche sul tema un mio articolo su : www.losservatorio..info .
33 Il caso è narrato da S. Mazzarella, Polizzi o della rivoluzione, cit. ; ed anche in M.Siragusa, Cronologia…,cit..
34 Asp, GP, b.136, fasc. “Marineo”, lettera del questore di Palermo al prefetto di Palermo, 14 settembre 1893.
35 Ivi
36 Ivi
37 Asp, GP, b.136, fasc. “Fasci di Marineo”, Carabinieri reali di Marineo al prefetto di Palermo, 4-1-1894. Vedi anche Giornale di Sicilia di quei giorni (6-7 gennaio 1894). 18 sarebbe stato il bilancio finale delle vittime indicato da Enrico la Loggia, mentre 6 sarebbero stati i morti e due feriti gravi per i carabinieri a poche ore dagli scontri. Cfr. Id., I moti di Sicilia, cit. ; Asp, GP, b.136, fasc. “Fasci di Marineo”, Carabinieri reali di Marineo al prefetto di Palermo, 4-1-1894.
38 Ibidem

Mario Siragusa
dottore di ricerca in storia contemporanea



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